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Pubblicato il 20 September 2015 alle 09:19
20 settembre 2015
In concomitanzadell’appuntamento inaugurale della manifestazione Cortes Apertas-Autunno in Barbagia, svoltasi nei primi giorni di questo caldo settembre nella cittadina di Bitti (NU), tra le tante case e corti sapientemente addobbate per accogliere il pubblico delle grandi occasioni, dopo aver lasciato la grande piazza principale e percorso una ripida salita che costeggia muri alti ed incombenti, scorgendo vicoletti e salendo a fatica rampe di scale, abbiamo visitato Sa Domo de Chircu ‘e Lizos. Una casa-museo a più piani, questa, dalla cui modesta terrazza si gode come non altrove la vista suggestiva del singolare abitato, che sembra avvitarsi verso il basso come un vortice racchiuso da verdi colline, quasi a voler celare in quella gola protetta dal maestrale la sua reale estensione.
Sa domo de Chircu 'e Lizos a Bitti (NU). Cortes apertas 2015
Realizzato nei minimi dettagli dalla curatrice della mostra, Giuliana Ligios, in pochi metri quadrati di quelle stanze odorose di antico, l’allestimento restituisce al visitatore gli arredi e gli utensili in rame tipici di un passato agropastorale povero come fiorente, che ora vengono celebrati e fotografati in tutta la loro malinconica bellezza. Osservando un vecchio braciere sul pavimento usurato dal tempo, si ravvivano alla memoria le genuine atmosfere dei contos vissuti attorno al fuoco mentre risuonano ancora nelle orecchie le arcaiche voci dei tenores “Dure”, canti ormai famosi in tutto il mondo ed ascoltati poco prima, nel mistico silenzio dell’affollata chiesa della Pietà.
In uno dei vani, allestito come la “sala buona” della casa originaria, tra le tante minuterie, costumi d’altri tempi, vecchie foto, libri di preghiera ed ancora utensili di vita quotidiana che coprono pareti intere, non è sfuggito un singolare oggetto appeso allo stipite della porta, il quale, a detta della gentile e disponibile proprietaria della casa, va datato –come sembra- alla prima metà del secolo scorso. È un modesto oggetto ricordo, di pochissimo valore pecuniario, ma assai interessante: una sorta di medaglione di latta brunita al cui interno appare disegnata corsivamente sulla carta ingiallita la statua di San Paolo di Monti, ossia quel Paolo primo Eremita, egiziano, vissuto ultracentenario a cavallo tra il III ed IV secolo d. C., venerato ed amato fra le genti soprattutto del centro-nord dell’Isola, ed il cui santuario presso Monti (OT) è da secoli meta annuale di torme di pellegrini.
L’oggetto-ricordo, custodito come una vera reliquia, fa memoria di un pellegrinaggio fatto dagli avi della proprietaria della casa -che ce ne ha diffusamente parlato- per sciogliere un voto. Ai tempi quel pellegrinaggio da Bitti, come partendo da qualsiasi altro luogo delle Baronie o delle Barbagie, della Gallura o del Monte Acuto, non era ancora tale se non svolto in gruppo, a piedi, a cavallo e con carri coperti di frasche o teli, fino all’ameno santuario in granito con le sue cumbessias, isolato come un eremo (e come potrebbe essere diversamente, visto il santo che ne viene onorato?) in una valle verdeggiante e ricca d’acqua distante 13 km da Monti. Un santuario ed una devozione assai cara anche ai fedeli olbiesi, che proprio nella notte tra il 19 ed il 20 settembre dell’anno in cui scriviamo, si accingono a percorrere il tradizionale pellegrinaggio a piedi verso il santuario distante una ventina di chilometri.
Il tragitto da Bitti (in rosso) al santuario di San Paolo di Monti ricostruito indicativamente nell'immagine satellitare (foto tratta da Google Earth).
Ben quattro volte più lungo era tuttavia il tragitto che i bittesi dovevano percorrere per antiche strade e tratturi sconnessi, percorribili al massimo dai carri a buoi. I circa ottanta chilometri venivano spezzati necessariamente in due tappe, con sosta ad Alà dei Sardi e negli ovili posti nei suoi dintorni. A differenza di quanto accade oggi, dopo i due giorni di sosta per la festa, tradizionalmente collocati intorno metà di agosto, il ritorno a casa dei pellegrini avveniva non certo salendo su una comoda automobile. Altri ottanta chilometri, quelli del rientro, li attendevano. Poca roba rispetto ai pellegrinaggi medioevali verso Gerusalemme o Santiago de Compostela nelle Asturie, centinaia, migliaia di chilometri rischiosi e faticosi. E se il ricordo, o meglio la prova dell’avvenuto pellegrinaggio a Santiago era la particolare conchiglia che, proprio per ciò, prende il nome di coquille Saint Jacques, per il pellegrinaggio a San Paolo di Monti poteva essere proprio un medaglione rusticamente artigianale come quello ora scoperto in casa “Lizzos”.
L’importanza ed antichità del santuario si spiega anche col fatto che quasi sicuramente il culto dell’eremita egiziano Paolo, il primo a ritirarsi a vivere da solo in una grotta nel deserto contemporaneamente al più famoso Sant’Antonio (secondo la tradizione i due si conobbero poco prima della morte di Paolo), venne introdotto in Sardegna durante l’età bizantina, quindi nei cinque secoli che vanno grosso modo dalla metà del sesto secolo all’anno Mille. Un santuario che nel medioevo non doveva sorgere in un luogo disabitato come lo è adesso: si sa infatti che nei pressi c’era un monastero poi abbandonato, ubicato non casualmente lungo quegli importanti tragitti della transumanza che dalle pianure olbiesi andavano verso gli altipiani di Alà e Buddusò, fino a Bitti ed oltre, secondo tracciati minori certamente esistenti fin dall’età romana e preromana, e che ci spiegano bene l’insistita devozione verso il santo egiziano, pure in un’area della Sardegna relativamente distante.
©Marco Agostino Amucano
La festa al santuario di San Paolo di Monti negli anni Cinquanta (immagine tratta da G. MATTIOLI, San Paolo di Monti, Olbia 2011).Per notizie storiche e bibliografia sul santuario rimandiamo interamente alla monografia:G. MATTIOLI, San Paolo di Monti, Olbia 2011).
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