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Bianca, Cronaca

La natività "alternativa" delle caprette Bainza e Barore

Un racconto inedito per i lettori e le lettrici di Olbia.it

La natività
La natività
Camilla Pisani

Pubblicato il 25 December 2022 alle 06:00

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Olbia. Venni a sapere del mio destino quando ero già adulta e avevo oramai abbandonato le mammelle della mamma. Nascere pochi mesi prima della festa per loro più importate dell’anno, non fu una grande fortuna.  Nel cortile recintato in cui vidi per la prima volta la luce non ero sola, altre caprette affollavano il prato, erano tutte della mia età, giorno più, giorno meno. Per fortuna la cognizione del tempo per noi ovini non è la stessa degli umani, per cui dopo qualche settimana ci sentivamo già adulte e in grado di provvedere a noi stesse.
Mentre i genitori passavano l’intera giornata alla spasmodica ricerca di cibo, noi trovavamo il tempo per giocare e scorrazzare per i prati.
Non c’erano grandi ostacoli da saltare, o piante su cui arrampicarsi, ma inventavamo comunque il modo per divertirci. Le mie amiche erano cinque, tutte simpatiche e carine, poi c’era un caprone che faceva il galletto.  Era particolarmente buffo, perché tozzo e con un ciuffo ribelle che gli cadeva sopra il muso.
Si atteggiava parecchio il becco, noi ragazze, pardon caprette, non ci accorgevamo di lui se non quando ce lo trovavamo fra le zampe. Alla sera quando la luce cominciava a scarseggiare, le mamme ci richiamavano per la nanna. Facevamo qualche storia ma poi ubbidivamo.

Solitamente il becco era quello che rientrava per ultimo, in compenso era lui che si prendeva le incornate più consistenti da mamma capra.
Al mattino ero la prima a lasciare il capanno e per riscaldarmi il corpo saltavo come una pazza, poco dopo tutte le amiche mi seguivano.
Ogni giorno che passava mi sentivo più agile e scattante. Trascorrevano le settimane e a noi sembrava che la vita sarebbe vissuta in quel modo.
Più tardi cominciammo a vedere degli umani dal volto nuovo.  Degli estranei che si fermavano ai bordi del recinto per osservarci. Cercai più volte di capire cosa venissero a fare da quelle parti, ma non ebbi risposte.
I miei genitori in queste occasioni si allontanavano più possibile, quasi a volersi nascondere.
Un giorno vidi un uomo particolarmente grasso che discuteva con il nostro padrone. Confabulavano, e tra una parola e l’altra indicavano alcune di noi.
L’uomo sconosciuto vestiva un grembiule verde, sembrava di gomma e portava degli stivali sino al ginocchio. Era privo di capelli in testa e le sue guance sembravano due arance.
Quando andò via, tirai un sospiro di sollievo, non so per quale motivo, ma quel personaggio mi incuteva paura. Continuammo la vita di sempre, amavo l’alba e al calar del sole mi accucciavo alla mamma per prendere sonno. Pensavo a quanto fosse bella la vita e alla fortuna di vivere insieme in un luogo come quello. Non sognavo perché il mio sogno lo vivevo ogni giorno quando aprivo gli occhi.
La porta dell’inferno però era a due passi da quella del paradiso. Qualcuno venne a spalancarla e noi senza rendercene conto, la attraversammo.
Una mattina quando la luce cominciava a far breccia dalle montagne, si presentò di nuovo quel terrificante personaggio. Questa volta però entrò dentro il recinto in compagnia del padrone e si avvicinò.

Sorrise e indicò una di noi, subito dopo un’altra e un’altra ancora. Io mi accucciai nella speranza di non essere scelta da quel mostro.
Le mie tre amiche furono prelevate con violenza dalle zampe e portate via. Urlavano come fossero al macello, quelle urla mi fecero rabbrividire.
Le mamme tentavano di colpire le gambe dei due aguzzini che rispondevano sferrando potenti calci.
Non ci fu niente da fare, le povere capre furono rinchiuse dentro una squallida gabbia e da quel giorno non fecero più ritorno.
Piansi per tutta la notte, neanche la mamma riuscì a placare le mie lacrime. Non potevo togliermi dalla testa quelle urla, e quegli occhi che chiedevano pietà mi rimasero impressi nella mente. L’indomani non riuscii ad alzarmi, temevo che ritornasse quell’uomo.
Alla fine, mi decisi e la mattinata passò senza grosse sorprese. Vidi due individui che parcheggiarono la loro auto a pochi metri dal cancello del terreno.
Erano vestiti bene, un maschio e una femmina.
Chiamarono il nostro padrone e li vidi parlare. Uno di essi indicò me e il becco.
Pensai fosse arrivata la nostra fine, corsi subito dentro il capanno e mi nascosi tra la paglia. Quando misi il capo fuori i due si erano ormai dileguati. In compenso poco più tardi ritornò il mostro dagli stivali verdi.
Parlarono a lungo con il padrone che stranamente continuava a fare segno di no con il capo.  Non ebbi modo di capire il motivo, ma poco dopo entrarono insieme dentro il recinto e prelevarono l’unica amica rimasta. Il distacco fu di una crudeltà inaudita. Ormai immaginavo fosse quella la fine che avrebbe accomunato tutte noi.
Pensai, andando a dormire che quella sarebbe stata la mia ultima notte. Vedevo dal capanno le luci colorate sugli alberi di Natale. Sentivo i botti che tuonavano e sulla strada decine di macchine che sfrecciavano. L’indomani come immaginavo si presentarono i due individui del giorno prima.
Entrarono e si diressero verso di noi.
Il becco alla vista dei due andò a nascondersi, ma si infilò in un luogo senza uscita. Il padrone lo raggiunse e lo prese dalle zampe. Poco dopo anche io finii fra le sue mani. Notammo malgrado la paura, che i due non avevano modi violenti. Ci rinchiusero dentro il portabagagli dell’auto bianca con del pane e partimmo per chissà quale destinazione.
Dopo un tempo imprecisato arrivammo di fronte a un cancello. Ci stringemmo l’uno contro l’altra in un angolo del portabagagli. Aprirono ed entrammo dentro un terreno recintato. Ci costrinsero a scendere, saltammo giù e quando alzammo il capo per guardarci intorno, ciò che vedemmo ci fece piangere dalla gioia. Era un paradiso quello che ci trovammo di fronte. Alberi giganteschi, piante di ogni tipo, rocce enormi e sentieri infiniti.
Un capanno caldo ed equipaggiato per ogni tipo di clima, due cucce per dormire, acqua fresca e delle ciotole colme di mangime.
Avevamo incontrato due angeli e quello era il paradiso. Ci diedero un nome, io fui chiamata Bainza e il mio amico che ormai si spacciava per fidanzato, Barore.
Ci volle del tempo per rendermi conto che quello che stavamo vivendo non fosse un sogno, ma poi ne fui finalmente certa. Pensai alle mie povere amiche e alla fine che avevano fatto, fui tanto triste per loro.
Anche nella casa dei nuovi padroni festeggiarono il Natale, ma noi fummo i loro invitati non il loro pasto.
Buon Natale a tutti.