Tuesday, 24 December 2024

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Olbia, un tocco di ironia per Natale: l’inedito di Luigi Piredda

Lo scrittore regala ai lettori un nuovo racconto

Olbia, un tocco di ironia per Natale: l’inedito di Luigi Piredda
Olbia, un tocco di ironia per Natale: l’inedito di Luigi Piredda
Camilla Pisani

Pubblicato il 24 December 2024 alle 06:00

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Olbia. Un ritratto vivido e sorprendentemente ironico della vita quotidiana che si intreccia con il ricordo e la tradizione. È così che Luigi Piredda, scrittore di spicco nel panorama sardo, decide di augurare buon Natale ai lettori di Olbia.it, con un inedito dal titolo "Cimitero Marathon".

Tra ricordi, affetto familiare e piccole incombenze quotidiane, l'autore racconta la sua giornata al cimitero con la madre, trasformando un contesto che normalmente si associa al raccoglimento in un momento quasi teatrale, dove ogni dettaglio prende vita. Il racconto mescola emozioni e riflessioni con quel tocco di leggerezza che solo una penna esperta sa offrire, rendendolo un omaggio tanto alla memoria quanto al legame indissolubile tra genitori e figli.

Questa storia, in esclusiva per Olbia.it, è una finestra sulla magia dell'ordinario e sulla bellezza di quei gesti che, sebbene a volte faticosi, definiscono il significato più profondo del Natale: il ritrovarsi, il prendersi cura, il ricordare.

Cimitero Marathon

Non posso fare a meno di raccontarvi la mattinata appena trascorsa al
cimitero. Se non lo facessi, me ne pentirei. Lo so, miei cari lettori, non è certo
il luogo più allegro e spensierato che possiate immaginare, ma vi assicuro
che, in compagnia di mia mamma, c’è stato spazio anche per qualche risata.
Facciamo un passo indietro, a una settimana fa, nel giorno dell’anniversario
della morte di mio padre. Dopo la messa in suffragio, parenti e pochi amici
intimi si sono riuniti a casa di mia mamma per un rinfresco. È una tradizione
consolidata: trascorrere qualche ora con le persone più care, condividendo
ricordi e un momento di raccoglimento.
Sui ricordi non si discute, ma sul raccoglimento avrei qualche riserva. A
essere sincero, non mi sembra che ci sia stato quel tanto decantato momento
di introspezione e silenzio. O forse, semplicemente, non me ne sono accorto.
A questo punto mi chiederete: cosa c’entra tutto questo con la nostra
passeggiata al cimitero? Eccome se c’entra. La presenza di tutte quelle
persone nel salone di casa ha avuto una conseguenza, per così dire, nefasta su
mia mamma.
La notte successiva, infatti, si è sentita male. E la mattina seguente l’ho
trovata con la gola in fiamme e qualche linea di febbre. Preoccupato, sono
corso in farmacia a prendere della Tachipirina e uno sciroppo per la tosse.
Tornato a casa, le ho posato i medicinali sul comodino e, con tono fermo, le
ho detto: “Stai al caldo e non ti affaticare.”
Lei mi ha guardato sorpresa, alzando un sopracciglio e abbozzando un sorriso
ironico. “Mio figlio che mi dice di riguardarmi… ma guarda un po’, non
l’avrei mai detto,” ha risposto, con quel tono a metà tra lo scherzo e
l’incredulità.
“Sai che giorno è oggi?”
“Certo, è lunedì, purtroppo”
“Si, ma oggi è il compleanno di tuo nonno, nonno Varrucciu.”
“È vero, me n’ero scordato.”

Mio nonno è morto nel 1987, era nato nel 1896.
“Sabato prossimo, mi accompagnerai al cimitero. Devo portare i fiori a babbo
e a Gianfranco.”
Io, preoccupato per lei, ho risposto:
“Pensa alla salute. Se starai male, non potrò accompagnarti.”
Lei ha sorriso, rassicurandomi:
“Starò bene, vedrai.”
Durante tutta la settimana le sue condizioni di salute non sono migliorate, ma
il venerdì sera, mi ha telefonato ricordandomi dell’appuntamento
dell’indomani.
“Ma come?” le dico, sorpreso, “Improvvisamente ti sei ripresa?”
“Sto bene,” ha risposto con tono deciso. “Domani mattina devo per forza
andare in cimitero. Da tanto non ci vado, i fiori si saranno senz’altro seccati,
che vergogna.”
Malgrado la mia contrarietà, mi sento costretto a ubbidire. L’indomani, cioè
oggi, ho chiamato la mamma alle otto, chiedendole a che ora volesse andare
in cimitero.
“Passa alle nove e trenta,” mi ha detto.
“Come ti senti?” ho chiesto, preoccupato.
“Bene,” ha risposto perentoriamente, come a voler rassicurarmi senza dare
spazio a dubbi.
All’orario stabilito mi sono presentato davanti alla sua casa, senza scendere
dalla macchina, convinto fosse pronta.

Improvvisamente, vedo il portone aprirsi e una mano spuntare all’esterno.
Con un gesto inequivocabile, mi ordina di aspettare.
Avevo già intuito che da questa mattinata sarebbe potuto nascere un racconto,
quindi ho cominciato a scrivere. Nel frattempo, ho anche il tempo di leggere
qualche pagina del libro che mi porto sempre appresso, Contro il giorno di
Pynchon, un vero e proprio mattone da mille pagine.
Venti minuti più tardi vedo la sagoma di mia mamma uscire dalla porta. È
coperta come se dovesse attraversare l’Antartide a piedi. Giubbotto blu con
pelliccia sintetica nera, dodici foulard arrotolati al collo, pantaloni sportivi di
lana e scarpe da tennis bianche, pronte per muoversi con “agilità” (se così si
può dire).
Dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, la vedo frugare dentro la solita
borsetta caotica, come se stesse cercando il Santo Graal, alla ricerca della
chiave per poter dare due giri al passante. Il gatto rosso, dalla testa enorme, si
alliscia il pelo fra le sue gambe. “Vattene via, ‘Miao’”, le dice, chiamandolo
con il suo nome originale, tanto amato dal povero mio padre.
Passano i minuti e, nel frattempo, le cadono per terra fogli, foglietti e
cianfrusaglie varie. Alla fine, con un sorriso trionfante, estrae le chiavi e le
solleva per farmene vedere, come se avesse appena pescato un’orata da un
chilo. Poi, con calma, chiude la borsa e raccoglie da terra tutto ciò che ha
perduto nel corso della ricerca, come se niente fosse accaduto.
Apre lo sportello della macchina e ride, senza motivo apparente, come se
tutto fosse buffo. Con fatica, trova una posizione comoda sul sedile, ma la
cintura di sicurezza sembra un ostacolo insormontabile. È superflua, troppo
complicata per essere allacciata, quindi la ignora con naturalezza.
L’allarme è fastidioso quanto il trapano del dentista, ma non per lei, che lo
liquida con un sorriso dicendo: “Già ti calmerai,” come se fosse emesso da
una persona. Arrivati sul piazzale del cimitero, controlla con attenzione che
ci sia il fiorista di fiducia. “Fermati di fronte,” mi ordina, con tono deciso.
“Da quell’altro non ci vado, non mi piace,” dice, indicando con un gesto il
fiorista poco distante.

La fiorista, una donna con una voce stridula da film horror, saluta
confidenzialmente, come se fosse una vecchia conoscenza. “Mi dai tre mazzi
di fiori bianchi, due rose e un mazzo di questi fiorellini colorati,” ordina,
indicando con un gesto deciso i fiori sul banco.
“Hai detto che saresti andata solo da Gianfranco e da nonno Varrucciu.”
Lei non risponde, come se non avesse sentito. Poi, con una certa disinvoltura,
mi dice: “Prendili tu i fiori,” senza badare minimamente a ciò che avevo
detto. Ci dirigiamo verso l’ingresso del cimitero. Il suo respiro è affannato,
cammina lentamente, ma procede con una determinazione che ricorda una
tartaruga in amore, come se ogni passo fosse una conquista.
La prima tomba da onorare è quella di mio fratello. Appena arriva, corre a
baciare la foto, pronuncia qualcosa sottovoce, ma le parole sono indistinte,
riesco a sentire solo le esse. I fiori sono tutti secchi, il piazzale antistante è
sporco. Senza esitazione, estrae dai vasetti i fiori secchi di tutte le tombe che
circondano quella in cui riposa Gianfranco e li getta per terra.
“Ma perché butti tutto per terra? Abbiamo la busta, mettiamo tutto dentro e
poi andiamo a gettarlo nei cassonetti.”
Niente da fare, continua a seguire il proprio metodo, senza ascoltarmi.
“Cerca un annaffiatoio e riempilo d’acqua,” mi chiede senza voltarsi.
“Dove lo trovo?” domando, un po’ confuso.
“Vai dai Roich, lo prendi, lo usiamo e poi lo rimettiamo al suo posto.”
“Dai Roich?” chiedo, perplesso. “Chi sono i Roich?”
“I signori che abitano poco più avanti,” risponde, come se si trattasse di
qualcuno che abita nella casa accanto, come se tutti sapessero chi sono.
Vado alla ricerca dei Roich, trovo la tomba e vedo l’annaffiatoio verde
appoggiato su un lato. Lo prendo e mi dirigo verso la fontana per riempirlo

d’acqua. Davanti al rubinetto incontro una vecchia conoscenza. Mi saluta
come se fossimo al bar, mi rammenta alcune vicende di quarant’anni fa e poi,
con un sorriso complice, mi chiede se conosco la barzelletta del papa.
“No,” rispondo, un po’ confuso.
Senza aspettare, inizia a raccontarla, una di quelle barzellette che, seppur
innocente, riesce a rendere ancora più triste il luogo in cui ci troviamo.
Eppure, per non sembrare scortese, rido come un bambino, il suono della mia
risata che sembra stonare nell’aria greve del cimitero.
Come si distrae, fuggo letteralmente dalla fontana, cercando di scappare da
quella conversazione. Ritorno da mia mamma, che nel frattempo ha
trasformato la zona in una discarica di fiori secchi, gambi spezzati e
frammenti di vasi.
“Cosa aveva da urlare quel pazzo?” mi chiede, alzando lo sguardo mentre
continua il suo lavoro.
“Lascia perdere,” rispondo, “mi ha raccontato una barzelletta senza senso e
ho dovuto ridere, sforzandomi.”
“Una barzelletta?” dice, scuotendo la testa. “Hanno liberato i pazzi dal
manicomio?”
Dopo aver distribuito i fiori a tutti, con una particolare attenzione per
Gianfranco, mia mamma si dedica a raccogliere le sterpaglie sparse
tutt’intorno.
“Prendi la scopa dai Marrone,” mi ordina, senza nemmeno alzare lo sguardo.
Questa volta capisco al volo. Mi dirigo verso la tomba dei Marrone, trovo la
scopa appoggiata lì e la prendo in prestito. Ritorno alla tomba e, senza fare
domande, mi metto a raccogliere gli ultimi rimasugli rimasti, infilando tutto
dentro la busta.

Versa l’acqua rimasta sul pavimento di marmo bianco e, con la scopa, lo
pulisce attentamente, come se stesse lucidando un altare.
“Bene, possiamo andare da nonno Piredda,” dice, cominciando a
incamminarsi lungo il viale.
“Come, da nonno Piredda?” chiedo, un po’ incredulo.
“Lo vuoi sentire tuo babbo, se non dovessi mettere qualche fiore nella tomba
del babbo?” risponde, con tono quasi offeso. “Lui non mancava mai di
andarci, ogni volta che veniva in cimitero.”
“Ma…” niente, ci rinuncio, andiamo da nonno Piredda.
Facciamo un centinaio di metri, i tempi sui cento di mia mamma non sono
come quelli di Marcell Jacobs, ci vogliono almeno quindici minuti per
arrivare davanti alla tomba di mio nonno Luigi. Per poter arrivarci è
necessaria la scala.
“Abbiamo dimenticato il mazzo di fiori nella tomba di Gianfranco, devi
correre a prenderli, prima che qualcuno se li porti via.”
Prima di pensarci troppo, mi metto a correre. Dopo qualche minuto arrivo
alla tomba di Gianfranco e trovo il mazzo di fiori appoggiato sul muretto di
fronte. Lo prendo e torno indietro di fretta.
Ritorno da mia mamma, che nel frattempo si è già distratta, intenta a
controllare altre tombe vicine con aria scrutatrice, come se fosse una
supervisora del decoro cimiteriale.
Salgo le scale, getto via i fiori secchi e sistemo con cura quelli nuovi nel
vasetto di ottone, cercando di concludere in fretta.
Quando scendo, trovo mia mamma ad aspettarmi con un altro mazzo di fiori
in mano.
“Quello?” chiedo, ormai rassegnato.

“È per zio Ponziano,” risponde con tono imperativo. “Devi solo spostare la
scala di qualche metro.”
Indica la tomba di mio zio, e senza discutere eseguo, spostando la scala e
sistemando anche questo mazzo di fiori.
Pensate sia finita qui? Sperate che lo sia? No, neanche per sogno.
Poco più avanti, mia mamma mi indica un’altra tomba. “C’è anche zio
Antonio Campesi. E vogliamo davvero andarcene senza lasciargli un fiore?
Ma per carità!”
Con un sospiro, sposto di nuovo la scala e aggiungo l’ennesimo mazzo di
fiori. Il pensiero che questo pellegrinaggio non abbia fine inizia a farsi
sempre più concreto.
Dopo aver gettato l’ennesimo quintale di fiori secchi nell’apposito mastello,
ci incamminiamo finalmente verso la tanto attesa tomba di mio nonno
Barore. Mia mamma si muove con la sicurezza di chi conosce ogni angolo,
ogni scorciatoia e ogni pertugio di questo immenso cimitero.
Durante il tragitto, non manca di indicarmi le varie tombe che incontriamo,
elencando nomi e storie di persone che ha conosciuto nel corso della sua
lunga esistenza. Parla con un tono quasi confidenziale, come se quei defunti
fossero vecchi amici ancora in vita.
Poi, a un certo punto, la vedo deviare dal percorso principale e intrufolarsi
senza esitazione in una stretta fessura tra due tombe, come se avesse scoperto
un passaggio segreto. La guardo perplesso, domandandomi cosa abbia in
mente questa volta.
La seguo a fatica, cercando di non urtare le tombe e gli oggetti sparsi lungo
quelle strettoie anguste. Dopo una serie di svolte e passaggi sempre più
stretti, ritroviamo finalmente la luce, proprio di fronte alla tomba di mio
nonno Barore.

“Ciao, babbo,” esordisce mia mamma con una voce carica di emozione.
Si avvicina lentamente, come se volesse prendersi tutto il tempo del mondo
per quel momento. “Buon compleanno,” continua, con un tono dolce ma
fermo. “Scusa se non sono potuta venire prima, stavo male. Non che adesso
mi senta bene, ma non potevo fare a meno di venire a trovarti.”
La sua voce si incrina appena, ma rimane composta. Si china per sistemare i
fiori, mentre io resto in silenzio, osservando quella scena intima, quasi sacra,
consapevole che, per lei, quel gesto racchiude un mondo di ricordi e di affetti
che il tempo non ha scalfito.
La vedo chinarsi verso un’altra tomba.
“Ciao zio Cicciu, ciao zia Nannedda”
Lo zio e la zia sono proprio accanto alla tomba di mio nonno. Saluta tutti, e
aggiunge ancora qualche fiore. Getta come al solito i fiori secchi per terra,
malgrado io, abbia in mano la busta.
Dopo aver ripulito con cura la zona utilizzando la scopa e la paletta dei
Deiana – presi in prestito senza alcuna esitazione – mia mamma si ferma
un’ultima volta davanti alla tomba di mio nonno. Saluta con un gesto della
mano e un sussurro appena percettibile.
Prima di avviarsi verso l’uscita, non risparmia un’ultima serie di
raccomandazioni: “Babbo, tienili d’occhio tutti da lassù, e anche noi qua giù.
Poi si volta e, con passo lento ma deciso, comincia a percorrere il lungo viale
verso l’uscita del cimitero, lasciandosi dietro un luogo che, per lei, è tanto un
rifugio di ricordi quanto un campo di battaglia da rimettere in ordine.
“Mi sento esausta,” sospira mia mamma, varcando il pesante cancello in ferro
battuto del cimitero.
“Lo credo bene,” rispondo, seguendola. “Abbiamo dispensato fiori a mezzo
cimitero, chiunque si sentirebbe distrutto a quest’ora.”

Lei si ferma, mi lancia uno sguardo severo, ma non riesce a trattenere un
accenno di sorriso. “Mica ti ho costretto,” ribatte con finta innocenza.
“No, certo, lo faccio per passione,” rispondo ironico, mentre la seguo verso la
macchina. “È sempre stato il mio sogno passare un sabato così.”
“Non fare il sarcastico,” mi ammonisce, “ci sono cose che vanno fatte, anche
se faticano.” Poi aggiunge, quasi sottovoce: “E comunque, tu al cimitero ci
vieni troppo poco.”
Così si chiude questa maratona in cimitero. Come tutte le maratone, non
posso negare che sia stata stancante, ma in fondo, la rifarei domani stesso.
Ogni passo, ogni piccolo gesto di mia mamma, ogni parola, li ho registrati
nella mente e nel cuore, e ho voluto condividerli con voi. Perché, in fondo,
chi può ancora vivere questi momenti con le persone care lo farà volentieri,
magari senza pensarci troppo, ma con la consapevolezza che ogni visita, ogni
fiore, ogni ricordo ha un suo valore profondo.
Buon Natale a tutti.