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Pietra e fango: la tecnica costruttiva dei nostri avi

Pietra e fango: la tecnica costruttiva dei nostri avi
Pietra e fango: la tecnica costruttiva dei nostri avi
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 13 September 2020 alle 09:52

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Olbia, 1 luglio 2019- È, anzi era, la tecnica di costruzione dei poveri. In Sardegna veniva chiamata un po’ ovunque pedra e ludu, pietra e fango (ludu è sostantivo sardo derivato direttamente dal latino lutum) ed era la panacea per coloro che volevano farsi la casa, ma con pochi soldi in tasca. Le materie prime erano praticamente a costo zero se si costruiva in campagna, dove il pietrame –che in Sardegna non manca di certo - è ad immediata portata di mano, come anche il procurarsi il fango vicino a un torrente, o impastandolo in una semplice fossa. Chi costruiva in ambito urbano, ed anche qui ad Olbia era così, doveva invece commissionare i carichi dei carretti di pietrame raccolto in superficie qua è là nei pressi. Spesso allo scopo furono smontati i ruderi di altre abitazioni, o delle mura urbiche medioevali, se non di interi villaggi della stessa epoca –anch’essi, come osservato, costruiti con la medesima tecnica - quale ad esempio quello di Villa Caresos, ubicato con certezza nell’attuale località Caresi, alle falde di Monte Pino. "Abba dae su mare, pedras dae Caresi", acqua dal mare, pietre da Caresi, dicevano in esametri i carrulanti dell’Ottocento, e potete giurarci che la stragrande maggioranza delle costruzioni urbane ed extraurbane di quel secolo furono costruite in pedra e ludu. Ed ancora nella prima metà del secolo successivo solo i “ricchi” potevano permettersi gli alti costi della calce e del cemento, quella dovendosi "spegnere" in cantiere con costi aggiuntivi quali lo scavo di una fossa, i tempi di cura del processo per l'ottenimento del grassello ecc.

“Fino al 1960 ed oltre la pedra e ludu era un modo di costruire alquanto praticato, io stesso l’ho visto eseguire dai mastros de murued ho contribuito più volte a metterlo in opera”, ci racconta Gino Guddelmoni, storico muratore di Olbia classe 1941 che iniziò a lavorare come manovale a soli undici anni. “La stessa abitazione a due piani dove oggi vivo nel centro storico, fu costruita in questo modo nel 1925. I muri di fondazione dovevano essere spessi, dagli ottanta centimetri fino a oltre un metro, per restringersi progressivamente se si saliva di più piani. Le fondazioni inoltre dovevano rigorosamente poggiare sulla roccia".

Ma come potevano delle pietre essere legate col semplice fango? “Questione di tecnica” ci informa Gino “e di usare alcuni accorgimenti. Oltre allo spessore murario notevole, si procedeva creando un doppio paramento di grosse pietre sbozzate disposte con capacità ed esperienza, mentre all’interno del muro si versava il riempimento (s’imbottidura) di fango frammisto a pietruzze, pezzi di tegola o altro materiale di piccole dimensioni. Chi non aveva i soldi per pagarsi la calce o il cemento, al tempo molto onerosi, risolveva così il costo dei materiali da costruzione. Il grassello di calce si usava semmai alla fine per gli intonaci, ma sempre risparmiandolo al massimo".

[caption id="attachment_102263" align="aligncenter" width="900"] Olbia. Via Giacomo Pala (foto dell'autore, giugno 2018)[/caption]

Qua e là sono ancora molte le abitazioni visibili tirate su così, soprattutto le semplici “case minime” di un solo piano visibili nel centro storico, o nel quartiere San Simplicio, ed anche numerosi muri di recinzione di giardini e orti. Il rudere di una costruzione abbandonata in via Giacomo Pala, ubicato proprio davanti alla stazione ferroviaria ed adibito un tempo ad uffici, ne costituisce un pregevole esempio. Nelle campagne circostanti, come accennato, non v’è poi antico stazzo che non sia stato costruito con questa tecnica povera.

[caption id="attachment_102266" align="aligncenter" width="3216"] Golfo Aranci. Stazzo ottocentesco detto di "zio Giacomo". Interno. (Foto dell'autore, giugno 2018)[/caption]

Bellissimo l’esempio di quello ottocentesco, ora abbandonato, nei pressi diGolfo Aranci, appellato“stazzo di zio Giacomo”. Qui la tecnica della pedra e ludu si rivela in tutto il suo modesto...splendore, con grossi conci granitici e scistosi assemblati in elegante quanto funzionale tessitura. Gli alzati costruiti in questo modo devono ovviamente avere una doppia protezione: dall’alto, con una buona copertura in tegole, e bilateralmente con spesso e curato intonaco. Una volta che il tempo inesorabile fa crollare il tetto, e gli agenti atmosferici avranno eroso gli intonaci, il degrado diventerà ovviamente velocissimo: il fango si gonfia d’acqua e si dilata ("faghet sa buscica", letteralmente fa la vescica, ossia si espande, ci chiarisce con efficacia terminologica Gino Guddelmoni), al suo interno prendono forza gli apparati radicali delle piante invasive e il degrado è rapidissimo. Allorquando la manutenzione di coperture ed intonaci di contro è stata garantita dall’uso abitativo, si possono ancora osservare stazzi perfettamente conservati, come anche diversi palazzotti a più piani nel centro storico di Olbia.

[caption id="attachment_102265" align="aligncenter" width="3216"] Golfo Aranci. Stazzo ottocentesco detto di "zio Giacomo". Esterno occidentale. Foto dell'autore giugno 2018[/caption]

Una tecnica costruttiva assai antica, questa della pedra e ludu, attestata fin dall’età punica della città (ci fermiamo qui al solo periodo storico), e perdurata senza soluzione di continuità fino alla metà degli anni Sessanta. Da allora i costi del cemento e della calce in sacchetto divennero più accessibili, e col tempo anche il progressivo irrigidimento delle norme di sicurezza nel costruire ne hanno bandito definitivamente l’uso.

∗Ringrazio l'architetto Pietro Pala per il fruttuoso scambio di opinioni con lui avuto sull'argomento

©Marco Agostino Amucano