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Loiri-Porto San Paolo: la cosiddetta “Chiesa antica di Santu Paulu”  

Una tradizione locale ancora ben viva a Porto San Paolo attribuisce i pochi ruderi ad una chiesa dedicata all'Apostolo delle Genti

Loiri-Porto San Paolo: la cosiddetta “Chiesa antica di Santu Paulu”   
Loiri-Porto San Paolo: la cosiddetta “Chiesa antica di Santu Paulu”   
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 25 July 2021 alle 21:00

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Loiri Porto San Paolo. Ci soffermeremo oggi su una struttura d’incerta attribuzione, nota in loco come “La Chjescia ‘eccia di Santu Paulu” (la Chiesa vecchia di San Paolo, nella parlata gallurese). Il relativo sito è ben individuabile sul F. 444 sez. 2 Porto San Paolo dell’IGMI, presso la località Punta di La Tanchitta (1), oronimo che indica un modestissimo rilievo (m 21 slm) distinto sul crinale che costituisce la spina dorsale del promontorio della breve penisola detta di Santu Paulu, protesa tra il mare aperto e l’insenatura di Porto San Paolo, che in questo punto trova la sua parte più nascosta e protetta nell’insenatura di Cala Finanza. I resti affioranti dell’edificio lasciano intravedere ben poco: solo parte di uno spazio irregolare, non meglio definibile senza uno scavo, che a vederlo così parrebbe la porzione residuale di un ambiente semiellittico o semicircolare, del diametro esterno  di m 7,60. Niente di più. L’elevato è ridotto a poco più del livello di fondazione, ha uno spessore medio di m 0,80/0,90, un’altezza massima di m 0,55 ed ingloba, appoggiandovisi, uno affioramento granitico nel quadrante mediano settentrionale della semiellisse. Nel quadrante occidentale sembra di poter leggere con difficoltà parte di una probabile, rozza soglia d’ingresso, con lo stipite sinistro parzialmente conservato nel modestissimo elevato residuale.          La struttura muraria ricorre ad una tecnica a secco con doppio paramento di blocchi di granito di dimensione e pezzatura variabile, in parte minimamente sbozzati, altri di raccolta. Alcuni dei blocchi di paramento sono infissi nel terreno di taglio, mentre l’emplekton consiste in un riempimento di scaglie e terra, con tracce di malta di fango (2). Ciò che può supporsi è che non poca parte dell’edificio –assai povero -  risulta interrata, o sepolta dalla fitta vegetazione che copre la porzione meridionale dell’area su cui insiste il rudere, nei cui pressi non è facile rinvenire fittili di superficie o evidenze che ne agevolino anche solo minimamente una provvisoria proposta di datazione.                      Una tradizione locale ancora viva tra gli autoctoni vorrebbe attribuire le rovine appena descritte ad una primitiva chiesa dedicata all’Apostolo delle Genti, Paolo di Tarso, la quale doveva essere efficiente ancora alla metà del XIX secolo, dacché Vittorio Angius la menziona unitamente alle altre chiese disseminate nel circondario di Terranova-Olbia (2 bis). Dal poco che si è osservato, così irregolare, escluderemmo una tipologia nello stile “romanico”, com’è noto affermatosi in Sardegna a partire dalla metà dell’XI secolo; men che meno nel posteriore stile che il romanico soppiantò,  il cosiddetto “gotico-aragonese”. Con tutta la prudenza del caso, sembra invece di trovarci al cospetto di un piccolo quanto rozzo edificio la cui planimetria sembrerebbe poter tendere alla circolarità. Una chiesa – sempre che di chiesa si tratti- che potrebbe anche riferirsi – azzardiamo - ad età genericamente altomedievale. Naturalmente solo un serio scavo  - si ribadisce a costo di essere monotoni - potrebbe aiutare a risolvere dubbi su tipologia monumentale e relativa cronologia del manufatto. Non rendono a nostro avviso strampalato un primo riferimento generico all’alto medioevo alcune informazioni e valutazioni generali sull’insediamento primitivo di Porto San Paolo. Proviene infatti da quest’area l’iscrizione cristiana di Benenatus, secondo la Sotgiu riferibile al IV-V secolo (3). Sebbene, come vedremo, da considerare con prudenza, proviene inoltre dal Taramelli la segnalazione di una cisterna da lui attribuita ad “età imperiale” ed ubicata in una posizione prossima al mare (4), notizia ripresa anche da Attilio  Mastino (5).  L’ubicazione di tale “cisterna romana” è desumibile dalla Carta Archeologica del Panedda, che ci garantisce della notevole prossimità alla Chjescia ‘eccia di Santu Paulu, ancorché lo studioso mostrasse dubbi più che legittimi circa l’attribuzione ad epoca romana già proposta dal Taramelli (6).          È sempre Dionigi Panedda a segnalarci l’esistenza di un secondo “pozzo romano (?)” (il punto interrogativo è suo) in regione “Porto San Paolo”, nei pressi di un estuario morto posto nel punto più meridionale della baia, a poca distanza dalla spiaggia. La costruzione, pur mostrando di essere “molto antica”, non presentava secondo il Panedda alcuna caratteristica che lo portasse “…ad una sicura attribuzione riguardo all’epoca in cui fu edificata…solo la stretta e quadrata imboccatura richiama quella dei vari pozzi romani, scoperti ad Olbia” (7).           La più antica attestazione del toponimo dello scalo è nel Compasso da navegare pisano, risalente com’è noto alla metà del Duecento: “bono porto che s’appella Sancto Polo” (8). La paternità pisana del toponimo costiero è sostenuta da Emidio De Felice, sia sulla base della forma fonetica riportata nel Compasso come anche nella carta nautica di Angelino Dalorto (1325), sia per la presenza del “culto del santo e per l’esistenza nella zona, a Punta La Greca, di una chiesa medioevale, ora distrutta, dedicata a San Paolo” (9). Si tratta proprio della “chiesa” di cui stiamo trattando. In disaccordo con De Felice,  Dionigi Panedda riteneva le formulazioni pisane dell’agiotoponimo non necessariamente come prime ed originarie. Il culto dell’Apostolo Paolo appare infatti ben noto ad Olbia per la chiesa primaziale sorta sull’antica acropoli della città fenicia, greca, punica e romana, come in altre tre attestazioni certe censite da chi scrive nel territorio fra Olbia, Padru e Porto San Paolo (10).  Attestazioni che vanno collegate probabilmente – ed anche su questo punto concordiamo col Panedda- ad un’antica tradizione, tuttora assai viva, che racconta dello sbarco “d’emergenza” di San Paolo avvenuto in uno dei suoi viaggi proprio presso questo tratto di costa, la cui insenatura avrebbe tratto così la denominazione tramandatasi fino ad oggi (11).           Circa l’ubicazione dell’antico “bono porto che s’appella Sancto Polo”, non ci risulta d’altro canto che sia mai stata formulata alcuna ipotesi che renda ragione di una collocazione più precisa, fermo restando che quella sia da inquadrare all’interno dell’ampia baia delimitata a nord dalla Punta Corallina, e a sud dal promontorio con la citata Punta di Santu Paulu e Punta La Greca (sull’ultimo toponimo torneremo fra breve).      Va premesso che solo in tempi relativamente recenti il semplice toponimo costiero di “Porto San Paolo” è diventato poleonimo. Ancora mezzo secolo fa si indicava con tale nome lo scalo usato dai pescatori olbiesi in caso di emergenza. Le poche famiglie che costituirono l’aggregato iniziale di Porto San Paolo - oggi comune autonomo in unione a quello di Loiri - si stanziarono inizialmente lungo la strada statale 125 (Orientale Sarda), quindi ad una certa distanza dalla costa. Solo in anni relativamente più recenti, grazie all’appendice creata sulla costa dall’imprenditoria turistica, è divenuto un centro vacanziero che durante i mesi estivi arriva a contare circa 15 mila presenze. Lo scalo portuale attuale nasce dunque in tempi recenti con esigenze prettamente turistico-diportistiche, essendosi scelto il punto più settentrionale dell’insenatura sampaolese, subito a nord dell’estuario del Riu Scalamala.          La scelta non può che cadere pertanto nella profonda insenatura a sud di Punta Santu Paulu, detta Cala Finanza, da qualcuno invece, ormai quasi desueto, Portu Casu (12), maggiormente protetto dai venti di scirocco e maestrale. Pare avvalorare  quest’ipotesi la prossimità del rudere della “chiesa” esaminato, posto su un rialzo che guarda proprio l’approdo, lo stesso agiotoponimo indicante il promontorio in cui questo si localizza e che chiude a nord Poltu Casu e la vicinanza topografica dei due pozzi di incerta attribuzione cronologica, dati per “antichi” dal Panedda. Rafforzerebbe l’indizio di una presenza altomedievale, con indiretto, momentaneo rafforzamento per un’attribuzione “bizantina” della “chiesa”, il toponimo di “Punta La Greca” che connota la sporgenza costiera contrapposta a Punta Santu Paulu.  Secondo il De Felice il toponimo “riflette certamente il sardo gregu e greku”, potendo però “essere in relazione con il vento di greco” (13) . Benito Spano pone addirittura in relazione il toponimo in argomento con il rudere della chiesa paolina, definita pertanto “antica chiesa di rito greco” (14). Una  tesi questa che non convinceva il Panedda, sia per la mancanza di ogni riferimento della succitata tradizione paolina, sia per il fatto che “il contesto toponimico dell’agro di Olbia –contrariamente a quanto avviene altrove in Sardegna - offre validi spunti che facciano intravedere insediamenti monastici greci nell’ambito di tale agro, durante il periodo in cui l’Isola gravitava nell’orbita di Bisanzio” (15). Secondo il linguista Giulio Paulis, la provata circostanza che “l’innovazione bizantina penetrò attraverso le due grandi porte di Cagliari e di Olbia” (16), seguendo dunque lo snodarsi delle strade romane e la dislocazione dei principali punti di approdo, crea una circostanza favorevole ad ipotesi interpretative come quelle di Benito Spano, e pur non portandolo ad assumere una posizione apertamente favorevole al riguardo, parrebbe renderlo piuttosto propenso verso l’interpretazione successivamente rifiutata dal Panedda. NOTE   1)  D. PANEDDA, I nomi geografici dell’Agro Olbiese. Toponimi dei territori di Golfaranci, Lòiri-Portosampaolo, Telti, Olbia. Sassari, p. 492, scheda 1717, La Punta di La Tanchitta 2)   Ibidem. 2 bis)     V. ANGIUS, s.v. Terranova, in G. Casalis (cur.), Dizionario storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, vol. XX (1850) pp. 826-845. 3 )     ILSard. I 329 = ELSard. p. 575 A 329 = A. MASTINO, Olbia in età antica, in Da Olbìa ad Olbia I, 1996, pp. 49-88, p. 81, n. 46= A. CORDA, Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori al VII secolo, Città del Vaticano, 1999 ( IC Sard. OLB 001), p.  168.   Benena/tus vix(it) in/pace an(nos) XXII 4)       A. TARAMELLI, Edizione archeologica della Carta d’Italia al 100.000, Fogli 181-182. Tempio Pausania – Terranova Pausania, Firenze 1939, IV SE, p. 50 n. 3 5)    A. MASTINO, La Gallura. L’età punica e romana: percorso storico e archeologico, in AA. VV. , La Gallura una regione diversa in Sardegna. Cultura e civiltà del popolo gallurese (S. Brandanu cur.), San Teodoro - ICIMAR, 2001, p. 63 6)     D. PANEDDA,  L’agro di Olbia nel periodo preistorico, punico e romano. Forma Italiae. Sardinia, Roma 1954, p. 140-142, n. 10, dallo studioso definito piuttosto come “pozzo romano (?)”.  Dalla Carta archeologica allegata si osserva come lo studioso posizioni tale struttura ad ovest di Cala Finanza, non lontano dalla linea di costa, ed a circa 250 metri a sud-est della nostra “chiesa”.  Si tratta in effetti, secondo quanto descrive e documenta lo studioso nella fig. 24 della p. 141, di un pozzo con imboccatura quadrangolare, profondo solo m 1,20, che ai tempi inquadrava sul fondo una piccola sorgente. Il “pozzo” risulta ricavato all’interno di una cavità naturale rocciosa, che su tre lati è stata riadattata in epoca imprecisata con un muro in pietra e calce. La spelonca con lo spazio riadattato che accoglie il pozzo è collegata con un’altra struttura rettangolare della medesima tecnica costruttiva del pozzo, interpretata come “fonte”, originariamente collegata al primo da un cunicolo sotterraneo che lo studioso apprezzò in un piccolo tratto. Il Panedda riteneva di difficile datazione l’insieme delle strutture, e pur ammettendone “l’indubbia antichità” ciò non gli permetteva comunque di attribuirne al periodo romano la costruzione (Ibidem, p. 142). Egli mette inoltre in dubbio il fatto che Taramelli avesse realmente visto tali ruderi, decrivendone infatti le murature costituite da “blocchetti di pietra e mattoni legati in calce”, mentre egli invece rileva la totale assenza dei secondi, e non trattandosi affatto di una “vasta cisterna con volta molto bassa e vari scalini che conducono al fondo”, i gradini essendo stati costruiti in tempi relativamente recenti dalla gente del luogo per accedere al pozzo. Anche in questo caso dunque, la proposta cronologica già dubitativa del Panedda, di per se stessa non può escludere l’attribuzione ad un’età medievale e post-medievale. 7)     D. PANEDDA , cit. vedi nota precedente, p. 140s. 8)     B. R. MOTZO, Lo Compasso da Navigare. Opera italiana della metà del secolo XIII, Cagliari 1947, p. 92 9 )     E. DE FELICE, Le coste della Sardegna. Saggio toponomastico storico-descrittivo, Cagliari 1964, p. 79. La carta di Dalorto è riprodotta in L. PILONI, Le carte geografiche della Sardegna, Cagliari.1974, Tav,. VII. 10 )  M. A. AMUCANO vedi https://dietrolequintee.wordpress.com/2012/10/14/la-tradizione-dello-sbarco-e-della-prima-predicazione-di-san-paolo-in-olbia-in-gallura-e-anglona-anno-xvii/       11)         Sulla tradizione D. PANEDDA,  Olbia e il suo volto, Sassari 1989, p. 26 ss. e D. PANEDDA, cit. v. nota 1,  p. 480s. L’A. lucidamente rileva come tale tradizione non contenga “elementi inverosimili, né, tantomeno, fantasiosi, come non di rado accade nel campo di quelle tradizioni, che finiscono con lo sconfinare nella leggenda”.  Sul “quasi certo” viaggio in Spagna di San Paolo, e sul fatto che Olbia fosse praticamente tappa obbligata tra Ostia e la penisola iberica nel I sec. d. C., elementi che non sembrano contraddire questa tradizione o leggenda che sia, consultare sempre il nostro articolo dal link della precedente nota.       12 )       E’ noto come  in passato il formaggio, insieme al bestiame, i pellami, il sale, le granaglie, ecc. costituisse uno dei principali prodotti  di tali traffici particolarmente rivolti alla Corsica, e che videro protagoniste le rade nascoste delle disabitate costiere della Gallura. Un secondo “Poltu Casu” è attestato all’interno del Golfo di Olbia, presso Punta Ruja-Capo Ceraso. 13)    E. DE FELICE, cit. (v. nota 9), p. 70 14)    B. SPANO,  La grecità bizantina e i suoi riflessi nell'Italia meridionale ed insulare, Pisa 1965, p. 107, nota 76. 15)     Secondo il noto studioso, il toponimo deriverebbe da un precedente Sa ‘e Greca, da Sa >tèrra> ‘e Gréca, cioé “il [terreno] di Greca”, essendo Greca un nome personale noto all’antica onomastica sarda: D. PANEDDA 1991, cit. p. 498. Alla stessa stregua va considerato secondo l’A.  il toponimo di  “Cala Greca”, presso Golfo Aranci, nel Golfo di Olbia (OT), (D. PANEDDA, id. cit. p. 100) che Benito Spano (ibidem) interpretava anche qui con la presenza in antico di un edificio di culto e di religiosi bizantini, di cui però –come giustamente rileva il Panedda- non resta traccia alcuna, è la cui origine deriverebbe dal naufragio di una nave greca nel 1888. 16)    G. PAULIS , Lingua e cultura nella Sardegna bizantina. Testimonianze linguistiche dell’influsso greco, Sassari 1982, p. 91