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I Nuragici, i Fenici e il rigurgito della “purezza della razza”

Si moltiplicano gli illusi che sbandierano come un vanto la minore variabilità genetica dei sardi rispetto agli altri italiani

I Nuragici, i Fenici e il rigurgito della “purezza della razza”
I Nuragici, i Fenici e il rigurgito della “purezza della razza”
Rubens D'Oriano

Pubblicato il 04 August 2024 alle 12:00

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Olbia. Nel Circo Barnum del fantarcheosardismo, che ne spara quotidianamente una più grossa dell'altra (esiste un libro nel quale si sostiene persino l'arrivo degli Shardana dal fantasioso pianeta Nibiru, vergognosamente acquistabile col bonus “Carta cultura giovani” o “Carta del docente”, uno sconto a pro di docenti e studenti finanziato con le nostre tasse), inizia a farsi strada persino il rigurgito di orrore della “purezza della razza”.

A scanso di equivoci, chiarisco subito che non intendo assolutamente accusare di razzismo nessuno degli autori dei commenti ai quali farò qui riferimento, perché non credo che siano consapevoli che è quello in realtà l'inevitabile conseguenza dell'idea della “purezza genetica”, ma che intendo solo condannare l'idea e non le persone.

Negli a-social networks si moltiplicano gli illusi che sbandierano come un vanto la minore variabilità genetica dei sardi rispetto agli altri italiani, che brandiscono con orgoglio analisi del profilo del loro DNA come puro sardo-nuragico-shardana e si leggono affermazioni del tenore di questa: “...uno Shardana, vero, con DNA verificato, ha chiesto alla guida di Abu Simbel...”. Ed è pessimo che una delle più importanti società sportive sarde di recente abbia ritenuto di glorificare così i propri atleti: “DNA Shardana, Guerrieri Sardi”; oltre al DNA, anche accostare concetti bellici, pur se solo per metafora, allo sport da parte di una società sportiva è segnale di poca coscienza del proprio ruolo sociale, e peggio ancora quando il messaggio arriva anche alle giovani generazioni.

Anzitutto dovrebbe essere evidente a chiunque per banale logica che non ci può essere coincidenza né genetica né culturale tra chi abita oggi la Sardegna e chi ci viveva 3000 anni fa, dopo 30 secoli di approdi e scambi con genti delle più svariate provenienze (Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi, Aragonesi...), e basti pensare alla spiccata multietnicità delle città portuali d'età romana. Ma quand'anche i sardi di oggi condividessero importanti parti del loro DNA con quello dei Nuragici...e con ciò? Abbiamo idea della distanza siderale che ci separa da essi sul piano culturale, tanto da essere ormai reciprocamente completamente alieni!? Chi accampa con orgoglio la medesima fierezza guerriera (vera o presunta che sia quella dei Nuragici) e sia in età da aver fatto il servizio militare di leva sa bene che anche lui, come tutti i coetanei sardi e italiani, avrebbe fatto carte false per evitarlo, e non pare che oggi fitte schiere di giovani isolani si arruolino volontari per spirito guerriero, ed è proprio di questo invece che si dovrebbe essere orgogliosi come sardi! Chi si identifica con i gloriosi Shardana si metta alla prova passando le ferie estive e invernali in una pinnetta, mangiando, bevendo e vestendo come loro, lasciando a casa ogni sussidio sanitario (occhiali, protesi dentarie, medicine), curandosi come loro in caso di problemi di salute, spostandosi a piedi come loro, procurandosi cibo e bevande coi loro mezzi (pensate solo alle zanzare...).

Una delle genialate del fantarcheosardismo è l'assurdità, di cui ho già scritto su questo giornale, per la quale i Fenici non sono mai esistiti perché, nemmeno a dirlo, sarebbero in realtà anche loro Nuragici-Shardana. Tra le molte stupidaggini di altra natura volte a dubitare della loro esistenza, compare anche quella per la quale il DNA tratto da scheletri di insediamenti fenici del Mediterraneo Occidentale sarebbe molto distante da quello attestato nella madrepatria levantina e perciò si tratterebbe di non-Fenici o ben poco Fenici. Dietro a tale castroneria si celano un intreccio di errori storico-archeologici, culturali, antropologici e, ciò che è ben peggio, di un orrore ideologico col quale ci eravamo illusi di non dover più fare i conti dopo i 6 milioni di morti che ha comportato tra il 30 gennaio del 1933 e il 30 aprile del 1945 e che ancora comporta oggi in troppe parti del Mondo, soprattutto in Africa ove, per esempio, nel 1994 si compì in Ruanda il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati con un milione di vittime trucidate in soli 100 giorni con machete, asce, lance, mazze.

È estremamente grave confondere e sovrapporre cultura e genetica. Ciò che distingue per noi dopo millenni un gruppo umano da un altro è la condivisione di importanti tratti appunto culturali. Nel caso dei Fenici, come di tutti i popoli antichi e moderni, circa gli aspetti di cultura che qui potremmo definire “immateriale” si tratta di lingua, religione e religiosità, pratiche e ideologie funerarie, struttura sociale e valori connessi sia di gruppo che personali, storia e miti, usi e costumi, ecc. tipici e esclusivi, o quasi, di un preciso gruppo umano. Dico “o quasi” perché le osmosi culturali tra popoli diversi ma in contatto sono sempre state e sempre saranno quotidianamente, e per fortuna perché ciò è fonte di progresso, all'ordine del giorno in quel crogiuolo di genti che è stato e ancora è il mondo euro-afro-asiatico affacciato sul Mediterraneo, perché se così non fosse parleremmo, per esempio, ancora in nuragico, ma così non è, con buona pace di chi favoleggia di latino che deriva dal sardo o di chi doppia in “nuragico” (in realtà un dialetto odierno opportunamente alterato) gli Shardana dominatori del mondo antico in fiction che passano per narrazioni storicamente attendibili. Sul piano poi di ciò che in archeologia si chiama cultura materiale, ovvero gli oggetti (da piccolissimi reperti a grandi monumenti), si tratta anche in questo caso di manifestazioni tipiche ed esclusive. Per i Fenici basteranno gli esempi delle anfore senza collo (gli altri contemporanei le fanno col collo), di forme ceramiche come brocche con orlo “a fungo”, lucerne “a conchiglia”, oil bottles, “fiasche del pellegrino”, ecc. e della ceramica rivestita di una tipica vernice rossa (red slip in gergo archeologico) che, guarda caso, in Occidente vengono prodotte solo nei siti che gli archeologi indicano come pertinenti ad essi o nei quali sono parte preponderante demograficamente o sul piano della leadership.

Anfora senza collo e brocca con orlo "a fungo".

Stante quanto sopra, parliamo correttamente di Fenici quando rinveniamo quel complesso di caratteri materiali e immateriali, ma a quel punto il DNA non c'entra assolutamente nulla. Niente di niente. Quando un individuo rientra in quei parametri, il suo DNA è del tutto ininfluente, anzitutto per definizione (vedremo tra breve), ma anche perché l'ampia diaspora mercantile che ha sparso genti dalla Fenicia fin oltre Gibilterra ha comportato ovviamente un enorme numero di unioni miste, archeologicamente molto ben attestate, tra essi e i popoli dei molto diversi luoghi nei quali hanno trovato dimora. Le città della Fenicia dalle quali inizialmente essi provennero non erano metropoli di milioni di abitanti, perciò chi di essi ha costituito insediamenti in Occidente aveva vitale bisogno, per la prosperità demografica, di unirsi con le genti del posto, portatrici dei più disparati DNA nella Penisola Iberica, in nord Africa, Sicilia e Sardegna. E già le stesse città fenicie del Levante non erano certo composte da persone con lo stesso DNA, in quanto esito già esse di una lunga pregressa storia di movimenti, migrazioni, unioni miste ecc. di quell'altro fenomenale e fecondo crogiuolo culturale che era il Vicino Oriente antico.

Lucerna "a conchiglia" e "fiasca del pellegrino".

Milano 2023, lungo tragitto sulla Metro 1-rossa, seduto leggo un giornale mentre a fianco a me due adolescenti in piedi parlano con tipica calata meneghina dei tipici argomenti dei loro coetanei di quella città e con le stesse dinamiche mentali. Solo alzandomi per scendere dal treno vedo che sono entrambi di pelle nera e però...ormai già piuttosto milanesi per molti aspetti! Viceversa, Camillo Benso conte di Cavour, figlio di una ginevrina e di madrelingua francese, giunse a parlar bene l'italiano solo a 38 anni e però...chi più italiano di lui, l'instancabile appassionato artefice dell'Unità d'Italia a tutti i costi!?

Sul piano delle popolazioni, la biologia e la storia insegnano che la mescolanza sia genetica che culturale è necessaria, vitale e di successo per la specie: i gruppi umani che, volenti o nolenti, non la praticano sono destinati all'estinzione. E sul piano personale ciò che conta a questo mondo sono i valori sui quali scegliamo di imperniare la nostra vita e quanto/come li pratichiamo, e il DNA non ha nulla a che fare con essi. Nulla di nulla.

 

È terribile dover ricordare ancora nel 2024 che confondere e sovrapporre cultura e genetica è uno dei peggiori errori/orrori della storia dell'Umanità, che ci illudevamo fosse definitivamente scomparso dalle menti e dalle coscienze, almeno di noi Europei, con un signore dai ridicoli baffetti che insanguinò il continente con 60 milioni di morti, suicidatosi alle 14,30 del 30 aprile del 1945 nel bunker sotto la Cancelleria del suo Reich, Millennario secondo il suo delirio di dominio e sterminio ma durato, per fortuna, solo 12 anni. Si potrebbe giustamente dire che quella fu una tragedia epocale mentre il rigurgito genetista in salsa shardana è solo una penosa farsa, e perciò ci si potrebbe allora chiedere perché preoccuparsene; ebbene, è tale l'aberrazione scientifica e, soprattutto, morale dell'idea, che è dovere etico additarla e condannarla fin dai primi risorgenti rigurgiti qualsiasi siano il contesto e l'iniziale consistenza con i quali riemerge e a prescindere da quanto chi la diffonde possa essere consapevole (sono certo di no) dell'orrore che sempre la accompagna.