Friday, 27 December 2024
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Pubblicato il 26 December 2024 alle 19:00
Olbia. Avevo terminato la frequenza dell'avviamento commerciale con esito positivo, e naturalmente si iniziava a valutare la sistemazione per affrontare quello che sarebbe stato il mio futuro nella vita sociale della mia Olbia. Non che in quel momento vi fossero tante possibilità di impiego e di lavoro. Così avevo modo di accedere, quando l'occasione me lo concedeva, ad una qualche attività lavorativa per sentirmi indipendente dalla famiglia.
In via Romana abitavano Mario e Vittorio Melis di professione pescatori; gli altri erano Tonino e Gavino Varrucciu. Come questi ultimi, anche Mario e Vittorio erano rispettati da tutti nel quartiere - la loro pelle segnata dal sole e dal vento raccontava storie di mille battute di pesca, mentre le loro mani callose parlavano di infinite reti tirate all'alba.
Un pomeriggio di un giorno di ottobre, Mario e Vittorio mi chiesero se avevo piacere di andare con loro a pescare; risposi affermativamente con entusiasmo, anche perché andare a pescare con le reti a strascico era per me un'esperienza che non avevo mai vissuto. Nei loro occhi brillava quella luce particolare che hanno i maestri quando decidono di condividere la loro arte con un novizio.
Era una giornata tiepida e bella, il mare calmo come olio, il cielo di un azzurro intenso che si specchiava nel nostro golfo quasi deserto. "Andremo a calare poco lontano," mi spiegò Mario, indicando l'estremità di Levante del Golfo, "vicino al faro, dove l'acqua è più generosa".
Giunti sul posto, sentivo il cuore battere forte mentre stringevo i remi, osservando con ammirazione Mario e Vittorio che, con gesti precisi e misurati, salpavano e distribuivano le reti. I pesci argentati saltavano nell'aria prima di finire nella cesta, in una danza che sembrava orchestrata dal mare stesso. Il rumore ritmico delle reti che scivolavano nell'acqua si mescolava al grido dei gabbiani sopra di noi.
"Più a destra!"; "Ora mantieni la posizione!"; “Vieni, vai!”- seguivo i loro ordini cercando di anticipare ogni movimento, mentre imparavo l'arte della voga. Le vesciche sulle mani bruciavano, ma stringevo i denti sognando il giorno in cui sarebbero state sostituite dai calli dei veri pescatori e sarei stato come loro.
Ma arrivati appena dietro il faro, Mario e Vittorio si fermarono in piedi come statue di sale. Io li guardavo cercando di muovere i remi e tenere ferma la barca. Il silenzio improvviso era denso come la nebbia, e persino i gabbiani sembravano aver smesso di volteggiare sopra di noi.
Stavo zitto in attesa perché immaginavo che quando era così, Mario e Vittorio guardavano il mare come a leggere il nuovo punto dove calare le reti, manco ci fosse un suo segno nell'acqua che solo loro vedevano, oppure lo respirassero come lo bevessero.
E invece dissero “Subito a casa!”. Esclamarono decisi “Scirocco!”; “Ma se è bonaccia! non c'è una bava d'aria!” risposi deluso, quasi protestando, come se mi avessero voluto fare un dispetto, uno scherzo. “A casa!” ribadirono imperiosi, “e zitto! e speriamo di arrivare prima di lui!” mi dissero, e afferrarono i remi con una forza che fece gemere il legno della barca, e iniziarono a vogare come se il diavolo in persona ci stesse inseguendo.
I loro quarant'anni sembravano dissolversi nell'urgenza della fuga, ogni remata più potente della precedente. Seduto a prua, osservavo l'acqua aprirsi davanti a noi mentre la barca iniziava il suo ballo inquieto. Fu allora che lo sentii: un soffio caldo sulla nuca, come il respiro di un gigante invisibile. Una carezza, poi un'altra, e infine l'intero mondo sembrò avvolto in quell'abbraccio torrido dello scirocco.
Il cielo, prima così sereno, si vestì di nuvole sempre più scure, come se qualcuno stesse tirando un sipario grigio sul teatro del nostro golfo. Il mare, nostro complice fino a poco prima, ora ci spingeva con onde sempre più insistenti, come per accelerare la nostra corsa verso la salvezza.
Raggiungemmo la rada mentre lo scirocco prendeva possesso di ogni cosa e del golfo, del paese e dei nostri respiri affannati. E anche se le nostre ceste erano vuote, mi sentivo più ricco che mai. Avevo imparato che il mare parla a chi sa ascoltarlo, che la saggezza dei vecchi pescatori viene da un dialogo silenzioso con le onde, fatto di rispetto e umiltà. Quella sera, tornando a casa con le mani doloranti e i vestiti intrisi di salsedine, capii di essere diventato un po' più olbiese, un po' più figlio di quello scoglio e di quella sabbia che il vento di scirocco accarezza da sempre.
© Salvatore Careddu
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